A GIUDIZIO PER LA MORTE DEL SUB

IL GIP Federica Guadino del Tribunale di Bergamo ha accolto l’istanza delle parti civili , moglie, figlio, genitori e le due sorelle di Lorenzo Canini, 39enne abitante a Ponteranica, morto impigliato nelle reti del fondale del Sebino tra Montisola a Tavernola Bergamasca il 3 gennaio 2015, rigettando la richiesta di non luogo a procedere formulata invece dalla pm Letizia Ruggeri e dalle difese. A processo, il 1° marzo, finiranno così un 57enne di Bergamo, amico e compagno di immersione di Canini, e due pescatori di Peschiera Maraglio di Montisola, padre e figlio, di 57 e 28anni. Poco dopo le 10.00 di quel tragico giorno il sub di Ponteranica era rimasto impigliato con le pinne in una rete posizionata a 30 metri di profondità, non segnalata e priva di codici di identificazione. Subito era apparso chiaro che si trattava di una rete di frodo per pescare tinche. Il compagno di immersione aveva cercato di liberarlo rischiando anche lui di rimanere intrappolato e aveva perso anche una pinna ma poi era riemerso, aveva dato l’allarme ai carabinieri, qualche minuto dopo era ridisceso e aveva passato la sua dotazione all’amico, che era già privo di sensi e di boccaglio. Poi era risalito, rischiando l’embolia e finendo all’ospedale. La contestazione giudiziaria non riguarda il suo comportamento, ma il respiratore che l’imputato aveva regalato all'amico. Era successo perché il 57enne si rifiutava di usarlo dopo che nel 2012, durante una dimostrazione a Trieste per promuovere il respiratore, erano morti due allievi e dove era stato condannato anche in appello a 8 mesi con pena sospesa: ora il giudizio pende in Cassazione. Per la parte civile, il respiratore era difettoso e avrebbe contribuito al decesso. Per i familiari della vittima pure il comportamento dell’amico era stato negligente: non aveva con sé un coltello per tagliare la rete e ci aveva messo troppo per tentare di soccorrere il Canini. Di diverso avviso la pm Letizia Ruggeri che già per due volte aveva chiesto l’archiviazione. Anche la difesa del 57enne che ha sottolineato che i due si erano immersi come amici e non come allievo e istruttore e che una consulenza ha dimostrato come l’unico difetto ravvisabile nel «rebreather» fosse un po’ di ruggine delle bombole. Inoltre quando ore dopo era stato ripescato il corpo, i piedi erano ancora impigliati nella rete, segno che non era operazione semplice disincastrare Canini e dunque è stata la rete ad aver causato la morte di Canini. Una rete che non doveva essere in quel punto del lago. I carabinieri di Tavernola erano risaliti a due pescatori di Montisola che però hanno sempre affermato che quella rete non era la loro e che per attribuire loro la proprietà della rete non vi erano prove: la rete, un tenchér, non aveva infatti segni distintivi, proprio perché gettata di frodo in una zona proibita. Il GIP Federica Guadino ha comunque rinviato tutti a giudizio.

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