INDAGINI SULLA MORTE DI ELENA CASETTO

Andrea Foggetti, responsabile del Nucleo Investigativo Antincendi, chiamato a testimoniare nel processo a carico dei due addetti della squadra antincendio all’epoca dipendenti della società che gestiva il servizio all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo, unici imputati del rogo che costò la vita a Elena Casetto, 19enne ricoverata nel reparto di psichiatria. Secondo il pm letizia Ruggeri, il loro intervento fu tutt’altro che manuale e scrupoloso, così come tantomeno tempestivo. L’accusa nei loro confronti è omicidio colposo. Forse quel 13 agosto 2019 la giovane paziente non appiccò l’incendio con l’intento di togliersi la vita. “La nostra deduzione, precisa Foggetti, è che possa avere utilizzato l’accendino in suo possesso, a quanto pare nascosto nelle parti intime, per liberarsi dai cinghiaggi che la contenevano a letto”. Durante l’udienza di giovedi 30 marzo, l’ispettore del Nia ha descritto con dovizia di particolari la genesi dell’incendio, basandosi su quanto emerso nei sopralluoghi del 14 e 19 agosto. Al giudice Laura Garufi ha spiegato che la stanza, quasi priva di arredamento e oggetti che potevano prendere fuoco, presentava “un livello di distruzione importante”. Il fumo e il calore avevano fatto collassare il controsoffitto e rotto i tubi dell’ossigeno, creando un’atmosfera definita appunto “sovraossigenata”, favorevole alla propagazione delle fiamme. “Erano bruciate persino le intelaiature delle finestre in alluminio, che normalmente fonde a 660 gradi”. Restano senza risposta alcune domande: gli addetti dell’antincendio potevano salvarla? Perchè la giovane aveva con se un accendino?

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